Creatività italiana, croce e delizia. Tra immagine ed ingredienti

E' riconosciuto che, ormai, uno dei tratti distintivi della birra artigianale italiana sia la creatività, l'estro, il colpo inaspettato, la fantasia. Lo dicono ormai tutti.
Molte volte questo processo creativo parte sulla base di aggiunte di ingredienti "strani" che si intrufolano in ricette di stili consolidati.
Non mancano birre ottimamente riuscite, punte di eccellenza. Un ottimo spunto di riflessione mi si è presentato con questo breve articolo di Kuaska. Ma a mio parere questo, tutto sommato, è un punto a sfavore dell'italianità della birra artigianale, o meglio dell'intero movimento.
Troppo spesso, infatti, questo ha significato proporre qualcosa che tecnicamente il mondo della birra rifiutava per mancanza di senso o di abilità del birraio. Solo ultimamente, forse, lo spazio di questi ingredienti sta trovando una giusta dimensione, non forzando più di tanto l'utilizzo di strane aggiunte.
Ma ci riusciamo a slegare, ora come ora, da questa etichetta di movimento eclettico?
Spesso quando si legge di birra su quotidiani o riviste popolari, gli articoli riguardano la tale birra con aggiunta di fiori alpini, di aghi del tale bosco, di spezie della tale campagna e così via. Eccone un esempio.
Le birre in stile, allora, che fine fanno? Fare una birra in stile o innovativa nel merito di più stili, in un Paese a tradizione non prettamente birraria, non è degno di notizia e di clamore?
Sono sufficienti solo le medaglie che piovono a febbraio a far puntare gli occhi sui buoni birrai che hanno tirato su il movimento e continuano a dargli una spina dorsale?

La creatività, a mio parere, non è questo. La creatività si misura su più fronti, non già e non solo su quello produttivo.
Voglio tirare in ballo un altro tema correlato alla creatività.
Se davvero siamo il popolo più fantasioso del mondo, popolo di poeti e di marinai, di artisti...come è possibile vedere questa esplosione di fantasia in merito ad ingredienti e, contemporaneamente, un appiattimento delle idee riguardo a marketing e immagine?
Non sarà l'aspetto preponderante, ma secondo me dare il giusto peso anche a questo aspetto contribuirebbe a dare la giusta e meritata visibilità che certi progetti birrari imprenditoriali meriterebbero.
Mi riferisco ai nomi dei birrifici, ai nomi delle birre ed alle etichette.
Senza l'intento di toccare la sensibilità ed il lavoro di nessuno, vorrei descrivere la mia personale Top3 dei modi meno sensati di chiamare una birra.



3 - Chiamare la birra usando il suffisso "-ale"
Per birre che appartengono alle alte fermentazioni (ale, appunto), francamente all'inizio era davvero molto bello, divertente, irriverente. Ma dopo aver girato ormai mezzo vocabolario, avvantaggiati dalla complessità della lingua italiana che permette numerosissime combinazioni etimologiche che scomodino queste tre letterine magiche, molti hanno mollato questo filone, ma non tutti. Ed ora chiunque sta riuscendo a trovare qualche altre parola in -ale, rischia davvero di deludere ben prima che facciano assaggiare la loro birra.

2 - Chiamare la birra col nome del suo colore.
In teoria è il modo più immediato per comunicare già qualcosa, e cioè il colore. Questo è spesso andato bene per le birre industriali, ed ha cominciato a funzionare agli inizi del fenomeno artigianale in Italia. Se però si progredisce in termini di cultura birraria e si fanno enormi sforzi per educare il pubblico a non giudicare dal colore solamente, continuare ed incaponirsi ancora su questa strada lo vedo poco intelligente. Vorrei non vedere più su etichette La rossa, La verde, La bruna. Sarebbe molto più sensato ed appropriato chiamarle con gli stili omonimi, come anche i più blasonati birrifici americani, o i più tradizionali tedeschi e altri, fanno tuttora. Che so, Porterhouse Red Ale, Samuel Smith's Imperial Stout.

1 - Chiamare la birra con un numero
A mio parere, questo è tra i tre l'indicatore migliore di scarsa originalità e di pigrizia commerciale. Sicuramente alcuni numeri avranno significati particolari ed affettivi per ogni persona, ma quanto è probabile che un consumatore ricordi la tale birra per ritrovarla in un beershop o per comprarla online? Sarà La15, La54 o forse La30? Terno!

Io non ci credo che nomi migliori e che acchiappino più la fantasia del consumatore non ce ne siano. Il nome comunica già tanto. Con ossimori, crasi, giochi linguistici oltre a dare un'idea della birra in questione, ci si diverte anche, aggiungerei.
E' molto interessante un video che ho trovato sul sito beerology.ca. E' relativo alla serie/documentario tv canadese "What's in a name" in cui un nuovo birrificio, The Church Key, deve trovare un nome per la sua nuova birra. E' divertente analizzare come tutto è cominciato con l'avvento della globalizzazione e del mercato della birra in bottiglia, dopo cui il marketing ha spinto a cercare di rompere quella consuetudine, secondo la quale il nome delle birre e dei birrifici era legato ai cognomi dei proprietari (vedi Guinness, Labbat's) o alla località (vedi Budvar/Budweiser). Beh, è molto bello il sondaggio proposto ad una serie di esperti in cui si fa la prova ad ordinare al bancone la birra con diversi nomi papabili e si vede l'effetto che fa. Alla fine il nome che si sceglie è quello che è univoco, non crea fraintendimenti o confusione in chi è dietro al bancone, è identificativo di quella birra e solo di quella, e resta nella memoria.
Propongo e consiglio vivamente di concedersi 20 minuti di riflessione complessivi in questi due piccoli video della puntata.


Se poi avete anche un'altra abbondante mezz'ora di tempo, per temi che poi esulano da quelli che lanciavo in questo post, è interessantissimo anche questo video che riguarda un dibattito dal nome "Birra e comunicazione" che si è svolto il 19 giugno 2010 all'inaugurazione del Birrificio Ticinese. Le opinioni di tutto rispetto sono di Agostino Arioli, Davide Bertinotti, Maurizio Maestrelli, Lorenzo Bottoni, Paolo Polli e Laurent Mousson.


Birra e Comunicazione from aiZerCast on Vimeo.

Ecco, credo che quello che debba essere fatto sia concentrare la fantasia sul creare un prodotto buono e che resti nella testa e nel palato di chi lo assaggia, e che faccia parlare di se per questo anche attraverso accattivanti nomi. Lasciamo agli ingredienti il loro ruolo, non più quello di attori ma di semplici comparse utili al film ma non indispensabili.
Che ne pensate?

Cheers!

Commenti

  1. Quando uscì la "La Zia Ale" (prima birra in collaborazione tra i birrai del lazio - A.Bi, Associazione Birra del Lazio) avevo proposto la "Cambiacanale"......ma l'idea, ai più, non piacque :)

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    1. ahah! :D
      Per noi homebrewer resta una "pratica" divertente, lo ammetto...anche perchè non dobbiamo dare conto a nessuno.
      La Zia Ale ha fatto discutere forse più per il nome emblematico che per il resto, altro esempio (anche se simpatico).

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  2. Applausi. Ma penso che difficilmente tanti "birrai" cambieranno idea.

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  3. Ottimo post che fotografa impietosamente i vizi atavici della scena della birra artigianale in Italia!
    Il tanto osannato estro italico e la mancanza di una tradizione birraria sono diventati una specie di alibi per produrre nel corso degli anni le birre più stravaganti (e a volte più orripilanti!)
    Le birre italiane, pur rifacendosi ai più tradizionali stili birrari esteri, di fatto poi li stravolgono con ingredienti insoliti, soprattutto legati al territorio.
    Un prodotto di questo tipo, seppure di ottima fattura, diventa una sorta di "unicum" difficilmente sottoponibile ad un raffronto, non solo con il classico modello straniero che l'ha originato, ma anche con le altre birre italiane appartenenti alla medesima categoria.
    Ognuna di queste, per forza di cose, risulta essere profondamente diversa dalle altre e il consumatore viene disorientato da tanta varietà.
    Non gli resta che acquistare etichette straniere o viaggiare per l'Europa per farsi un'idea precisa degli stili birrari.
    Questo discorso potrebbe essere esteso dagli ingredienti al procedimento produttivo.
    Ad esempio, quanti birrai in Italia, escluso A. Arioli, utilizzano l'antica tecnica boema della tripla decozione per brassare una pilsener?
    Forse nessuno!
    L'estro creativo, da solo, non può più bastare.
    La fantasia produttiva dovrebbe, a mio parere, innestarsi su una solida conoscenza delle secolari tecniche birrarie usate all'estero.
    Ma quanti dei nostri birrai viaggiano e si perfezionano in Belgio, Germania, Gran Bretagna e Repubblica Ceca per carpire dai grandi mastri birrai i segreti delle loro produzioni?
    Quanti si sforzano di studiare a fondo le ricette delle grandi birre?
    Quanti di loro partecipano periodicamente a corsi di aggiornamento teorico e tecnico?
    Temo che siano davvero in pochi!
    Se il birraio di casa nostra cominciasse a coniugare la sua fantasia con una più approfondita conoscenza della tecnica, forse le eccellenze birrarie nel nostro Paese non si conterebbero più sulle dita di una mano.

    Michele

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    1. Tra l'altro il consumatore, tra tutte queste birre in stile-non stile, forse le peculiarità degli stili non le capirà mai e non saprà distinguere se realmente gli stanno proponendo una pils, una blonde, una saison.
      Decozioni, viaggi di conoscenza, tecnica: temi caldi, sarebbe bello sentire come la pensano i birrai italiani (soprattutto i più "creativi") e come si pongono a riguardo.

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